Nesolio
Sono due le strade che da Erve portano a Nesolio: una mulattiera ancora selciata qua e là e una strada poco più ampia e più recente, ma egualmente dimessa.
Entrambe si inerpicano sul pendio della stretta valle rincorrendo faggi, querce e castagni secolari. Sfociano infine in un modesto slargo pianeggiante, un foglio bianco su cui s’appoggia il paese fatto di case sormontate l’una all’altra. Esso compare d’improvviso con i suoi muri traforati dai legni che una volta sostenevano i ballatoi e che ora trafiggono le facciate. I tetti crollati che lasciano a nudo i canovacci ortogonali delle travi, le centine delle finestre che non hanno resistito all’incuria del tempo e si sono aperte al loro sommo, le porte sprangate da fragili assi rose dai tarli.
E’ abbandonato da anni l’abitato e mostra in angoli nascosti i segni residui dei lavori di un tempo.
Lavori in verità limitati da una montagna aspra, con declivi quasi verticali, impossibili da coltivare, utili solo per fare il fieno per le bestie e qualche raro fazzoletto in piano per rubare quattro frutti a una terra avara.
Due o tre balconi colmi di cascate di gerani in fiore e il martellio ritmico dell’affilatura di una falce fan capire l’ostinazione di chi vuole tornare o non se n’è mai andato.
E’ un paese strano Nesolio, o almeno quel che ne resta. Un po’ fantasma, un po’ stregato. Con un’atmosfera sospesa e rarefatta. Con un impianto che sfugge alla norma – non c’è la chiesa, ad esempio – che neppure gli studi approfonditi della facoltà di Architettura di Milano, che ha fatto il rilievo di tutte le costruzioni, sono riusciti a chiarire. Le pietre conservano così il loro segreto, quasi a schernirsi da chi vuole violarlo.
E’ in questo contesto di silenzio e mistero che si inseriscono gli interventi. Istallazioni disseminate nelle case, nelle stradine, sulle facciate scorticate e, più in là, appena fuori dal paese, sui percorsi che salgono nei boschi o lungo i sassi del ruscello.
Non c’è un tema unitario individuato a priori. Fedeli ai propri orientamenti si opera a partire dal luogo, dall’analisi del contesto. Ci si lascia pervadere da quello che l’ambiente suggerisce e restituisce nelle opere la rielaborazione di ciò che è carpito. È un moto circolare che, tornando continuamente su se stesso, riordina progressivamente le sensazioni, il vissuto, il tempo storico, raddrizza le prospettive falsate per giungere all’essenza.
Il filo conduttore è dunque “solo” l’attenzione a questo luogo sospeso tra il fascino e il dispiacere dell’abbandono, tra il desiderio e la paura di vederlo rinascere.
Le opere vanno cercate. Si mostrano con pudore. Sono silenziose come i sottoportici e i sentieri che vanno agli orti. Vivono, crescono, si consumano. A volte sono mimetizzate e quasi introvabili, come introvabili sono le ragioni di un paese come questo.
Proprio questa “mimesis” costituisce la cifra dell’intervento del Gruppo Koinè. Ne misura il peso e diventa filo conduttore per chi vuole svelarne l’imponderabile leggerezza, sapendo che ogni opera nasconde nel mistero almeno tanto quanto mostra agli occhi.
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